ARTURO CARROZZA Internato MIlitare Italiano n°101540
INTERNATI MILITARI ITALIANI
LELE PAGLIULA Nardò, 22 Marzo 2022 inserito in I.M.I. il 20.03.2022
Arturo Carrozza nasce a Nardò il 17 novembre 1924, da Antonio e Chiara Falangone.
Primo di otto figli, sette maschi e una femmina, lavora con il padre in campagna fin da bambino per aiutare la famiglia. Frequenta la scuola elementare con profitto fino alla quinta classe ; riceve una educazione basata sui valori etici e religiosi. Le sue memorie sono scandite dalle ricorrenze religiose e dalla fede.
A 18 anni viene deportato nel Lager Bezeichnung 247/I M. Stammlager II A a Neubrandenburg in Germania, dove viene profondamente segnato da due anni di durissimo lavoro coatto cui i tedeschi, dopo l’8 settembre del 1943, costrinsero tanti prigionieri italiani (Internati Militari Italiani) privandoli della dignità di uomini.
Di questa sua triste e dolorosa esperienza , da giovane, ha raccontato poco , forse perché voleva dimenticare provando un certo disagio per essere stato prigioniero. Spesso però riferiva alla figlia primogenita che il suo nome ,Carmina ,era stato scelto per un voto fatto alla Madonna del Carmine durante la dura prigionia nel lager, quando temeva che non sarebbe più tornato a casa. Da anziano, quando soprattutto attraverso la televisione, le notizie sulla vita nei lager, diventano di dominio pubblico, racconta con tanta tristezza le sue vicissitudini. Su sollecitazione delle nipotine e delle loro insegnanti, trova la forza di mettere per iscritto i suoi ricordi utilizzando foto, documenti, lettere che per lungo tempo aveva gelosamente custodito in una cassetta con lucchetto. Ha portato la sua testimonianza agli alunni della scuola primaria e secondaria perché il suo racconto potesse essere per le future generazioni ,monito a non dimenticare ,a ripudiare la guerra ,a dire mai più alla barbarie, alla malvagità , alla sofferenza, alla fame, al dolore, cui sono costretti ingiustamente militari ,civili e intere popolazioni inermi durante le guerre.
Il suo racconto/ diario ,scandito da date, indirizzi, nomi di commilitoni ,di città , ha voluto intitolarlo “La mia prigionia”. Da prigioniero ,infatti, aveva servito i tedeschi che, senza scrupoli, senza pietà ,avevano annientato gli uomini, deportandoli nei campi di concentramento di lavoro e di sterminio.
Nell’ottobre del 1963 gli è stata conferita dall’Esercito Italiano ,la Croce al merito di Guerra “in riconoscimento dei sacrifici sostenuti nell’adempimento del dovere in guerra”.
Nel giugno del 2013 , pochi mesi prima di morire, ha ricevuto dalla Presidenza della Repubblica la Medaglia d’Onore per aver contribuito con le sue scelte coraggiose a combattere il nazifascismo. Nella stessa occasione ha ricevuto dal sindaco Marcello Risi una Medaglia del Comune di Nardò, come riconoscimento a un cittadino esemplare che ha onorato la sua città mantenendo sempre salda la fede negli ideali di libertà. Grande e intensa è stata la commozione per quelle medaglie, simbolo di un riscatto atteso una vita , che ha tenuto strette al cuore e sono state di conforto fino alla morte.
Viene annoverato tra gli IMI (Internati Militari Italiani), protagonisti della Resistenza “disarmata”, ossia tra coloro che non con le armi da fuoco, ma col coraggio e la determinazione ,con l’arma dei valori etici e ideologici , rischiando la vita, hanno difeso la Patria e la Libertà. La prigionia nei lager è riconosciuta ,oggi ,come una forma altrettanto nobile ed eroica di Resistenza al nazifascismo in quanto ha promosso la consapevolezza morale e politica che aprì la strada alla Liberazione, proprio come la lotta armata partigiana.
Anche Arturo, giovanissimo, catapultato nella violenta realtà della guerra ,umiliato ed offeso, con coraggio e dignità, ha onorato la Patria e la sua città, Nardò .
Il suo racconto /diario, ”La mia prigionia” è stato stampato nel 2007 a testimonianza di ciò che è stato e per non dimenticare.
Arturo muore a Nardò il 1 gennaio 2014.
Carmen Carrozza
Qui di seguito, cliccando sul titolo "LA MIA PRIGIONIA" sarete indirizzati alla pagina che contiene il Racconto/Diario
dell'I.m.i. Arturo Carrozza scritto e curato dalla figlia Carmen Carrozza e stampato col titolo da lui scelto.
Per NON DIMENTICARE
La testimonianza di un Internato Militare Italiano,
il neretino Arturo Carrozza
Quando un diciottenne neritino si ritrova deportato in un lager nazista in Germania.
CARMEN CARROZZA Nardò, 20 Marzo 2022
Il 10 giugno del 1940 l’Italia entra in guerra a fianco della Germania e del Giappone: si combatte la seconda guerra mondiale. Arturo aveva sedici anni e non avrebbe mai immaginato di essere coinvolto come soldato. Ricorda però che si sentivano gli effetti della guerra: il governo fascista aveva imposto la consegna di tutte le fedi d’oro degli sposi dando in cambio quelle di alluminio; aveva fatto ritirare tutte le pentole e i secchi di rame che sarebbero serviti per costruire i cannoni. I generi alimentari scarseggiavano e per questo erano razionati e distribuiti con la tessera. Ai produttori di grano e olio era concesso di tenere in casa un certo quantitativo ; se venivano scoperti in possesso di quantitativi maggiori, venivano condannati per contrabbando. Ricorda che i suoi genitori, come tanti altri produttori, per sfamare le proprie famiglie nascondevano grano e olio nei ripostigli che poi muravano rendendoli perfettamente invisibili. Fu sconvolto dal bombardamento aereo del luglio del 1943 in contrada Pilanuova , lungo la ferrovia, non lontano dalla sua abitazione, che provocò morti e feriti. Tuttavia ancora non veniva sfiorato dall’idea di combattere in guerra.E invece in quella calda e nefasta estate, riceve la “cartolina precetto” per arruolarsi. Aveva 18 anni.
Parte da Lecce per Rovereto il 19 agosto del 1943 , destinato al 132° Reggimento Artiglieria corazzata, divisione Arieti.
Porta con sé l’abitino della Madonna del Carmine, ricevuto in dono durante la messa di benedizione degli arruolati che si celebrava prima della partenza, così come si usava al tempo. Arriva a Rovereto di domenica: i negozi sono chiusi ,la città è deserta, piovosa , triste, raggiunge con gli altri compagni la caserma.L’8 settembre, all’annuncio dell’armistizio, i commilitoni levano grida di gioia, pensando che la guerra stesse per finire, ma il tenente richiama all’ordine e al silenzio , presagendo tristi eventi.
All’alba del giorno dopo, infatti, due carri armati tedeschi irrompono nel cortile della caserma squarciandola con la luce sinistra dei fari. I soldati tedeschi intimano ai militari italiani di depositare le armi e di eseguire gli ordini.
Iniziano le deportazioni in Germania. Arturo ed altri commilitoni partono da Rovereto il 12 settembre. In un vagone merce fatiscente, privo di servizi igienici, si ritrovano ammassati, come animali in gabbia, impauriti, affamati. Il treno fa tappa a Innsbruck : qui vengono distribuiti pane e lardo, ma ahimè, al vagone di Arturo non arrivano, si finiscono prima. Si riparte per Berlino: la paura è tanta, nessuno sa cosa sta per accadere. Qualcuno sente il bisogno di pregare ,propone di recitare il rosario. Arturo ha imparato dalla amata mamma Chiarina, donna religiosissima, le poste del rosario, ma non se la sente di recitarle, è in preda allo sconforto, e invita a farlo un compaesano che era con lui, Michele Baccassino.
Il treno si ferma alla stazione di Neubrandenburg : i prigionieri vengono fatti scendere; percorrono circa 3 km a piedi, in salita, scortati dai tedeschi .Stanchi e affamati, tra gli insulti e gli sputi dei tedeschi civili che incontrano per strada, per i quali sono dei “traditori “, raggiungono il campo di concentramento denominato Lager Bezeichnung 247/I M. Stammlager II/A Neubrandenburg i. MecKelburg (la regione)Deutschland. Qui, sempre strettamente sorvegliati, vengono portati alla “disinfezione”: vengono fatti spogliare nudi ,poi ricevono l’ordine di bagnare le mani in un liquido, che un militare tedesco aveva versato in una bacinella , e di ungersi genitali e ascelle. Arturo non dimenticherà mai il bruciore e il dolore provato. Quindi a ciascuno viene appeso al collo il piastrino di riconoscimento con foto e numero: quello di Arturo era: 101540/II/A.
Inizia per Arturo quella che egli chiamerà , “la mia prigionia”.
Nonostante avesse dichiarato di essere un bracciante agricolo, viene destinato al duro lavoro nelle ferrovie, dove fatica, freddo e fame sono implacabili .Il rancio è sempre molto scarso : i deportati per sfamarsi rubano qualche patata dalle casse destinate ai soldati tedeschi, rovistano tra i rifiuti alla ricerca anche solo delle bucce o di altri scarti. Cercano nei campi vicini qualche bietola da foraggio rimasta dopo il raccolto o qualche verza ghiacciata e le divorano crude. Quando riescono a sfuggire al controllo dei sorveglianti tedeschi mettono insieme le patate trovate nei campi vicini e nasconde nelle tasche e le cuociono in un secchio. Prima però ognuno fa un segno per riconoscere le proprie, una croce o due, una o due linee, così, una volta cotte, ciascuno mangia le patate col proprio segno e non ci si azzuffa. La fame era tanta. Una volta il capo tedesco si accorge, s’infuria, rovescia con un calcio il secchio con le patate semicotte e le seppellisce nel terreno ghiacciato accusando i prigionieri di sottrarre tempo al lavoro. Arturo e gli altri affamati le disseppelliscono, le ripuliscono alla meglio e le mangiano ancora quasi crude. La fame era tanta. Ormai sono trattati come animali, maltrattati, umiliati e offesi, privati della dignità di uomini.
In quei giorni il lager viene visitato da alcuni ufficiali nazisti e fascisti i quali propongono ai deportati italiani di tornare in Italia per combattere contro gli americani. Alcuni accettano sperando di riuscire a fuggire, Arturo ed altri scelgono di rimanere: non potevano stare dalla parte di chi li aveva privati della libertà e costretti a condizioni servili e disumane.
Dopo quindici giorni Arturo e altri prigionieri vengono trasferiti a Parkenten. Anche qui la vita nelle baracche militari è dura: si mangiano brodaglie ,si dorme su brande a castello a quattro piani distanti solo sessanta centimetri su cui si sale con una scala a pioli. Si deve lavorare e obbedire senza fiatare, anche con la febbre.
Un giorno, infatti, quando deve andare a lavorare a Rostock, Arturo ha 38° di febbre ed è stanco, privo di forze; implora il capo di poter rimanere in baracca, ma gli viene intimato di partire immediatamente, senza pietà. Dopo due giorni era la vigilia di Natale del 1943: il sorvegliante capo trova Arturo in baracca debole ed esausto: s’infuria , lo aggredisce, lo spintona, lo prende a schiaffi e a calci nel sedere perché non era andato a lavorare e gli ordina di pulire la stalla dove lui aveva una mucca.
Il giorno di Natale i prigionieri hanno un pranzo speciale: un panino bianco grande quanto un pugno e una minestra con piselli ,pochi, così pochi che bisogna cercarli con la lente in quella brodaglia disgustosa. Arturo ricorderà quel Natale del 1943.....ogni Natale quando si ritrova con la famiglia dinanzi alla tavola imbandita e ricca di ogni bene .
Dopo Natale, ossia dopo tre mesi, come previsto dal regolamento, i deportati hanno finalmente il permesso di scrivere alle famiglie di cui non avevano più notizie. La lettera di Arturo giunge ai familiari il 13 giugno 1944, la risposta esattamente un anno dopo la partenza, il 19 agosto 1944. Intanto egli riesce a mettersi in comunicazione con dei parenti che vivono a Como ai quali chiede notizie dei suoi genitori. Essi però gli fanno sapere che l’Italia è divisa: a Sud ci sono gli americani, a Nord i tedeschi e non c’è possibilità di comunicare. Lo rincuorano inviandogli viveri e indumenti.
Nel febbraio del 1944 viene destinato a lavorare a Güstrow, una cittadina con una ferrovia molto più grande: è preoccupato e rammaricato perché deve lasciare i suoi amici e compaesani e anche loro lo sono, soprattutto per la sua salute cagionevole. Lo affidano alle cure e all’affetto di un commilitone prigioniero più anziano, Pietro Palumbo di Trani, che sarà per lui come un padre.
A Güstrow lavora sempre nelle ferrovie, ma anche come muratore alla costruzione di alcune case nelle vicinanze. Il lavoro è ancor più faticoso : si dovevano riparare gli scambi ferroviari, si doveva togliere la neve continua e incessante dai binari tra un vento gelido e una temperatura che scendeva fino a 15°/16° sotto zero. Lì Arturo vede per la prima volta con sorpresa il fiume e il lago vicini alla città ghiacciati. I commilitoni del nord ci camminano sopra, ma lui ha paura, non è abituato e ha sempre tanto freddo.
Il 21 maggio 1944 ,terza domenica del mese, a Nardò è la festa del Crocifisso, a Güstrow gli aerei americani mitragliano la stazione. C’era stato un violento nubifragio e Arturo è impegnato a prosciugare l’acqua dai sotterranei della stazione quando suona l’allarme. Corre con gli altri prigionieri alla ricerca di un riparo, si acquatta dietro a un muretto col fiato sospeso per un tempo che sembra interminabile, mentre tutto intorno crolla. E’ salvo per miracolo.
Il 16 luglio 1944 a Nardò è la festa della Madonna del Carmine. Quella notte sogna di essere finalmente a casa al sicuro, ma grande è la delusione e lo sconforto al risveglio quando si ritrova ancora in baracca. Quel sogno però accende in lui la speranza di ritornare un giorno a rivedere i suoi genitori e i suoi fratelli. Si convince che la Madonna lo protegge e fa un voto: se si fosse salvato, sposato e avuto una figlia ,l’avrebbe chiamata Carmina .
Verso la fine di novembre del 1944 da Internati Militari i deportati diventano internati civili. Qualcosa cambia: a ciascuno viene fatta la carta d’identità con foto, dati anagrafici e nazionalità. Non sono più sorvegliati di continuo: le porte della baracca sono lasciate aperte di sera; si può andare al cinema e partecipare alla messa di domenica in una chiesetta che si trovava nelle vicinanze. Quando di sera un caporale tedesco sorveglia la baracca, spesso porta con sé la chitarra e invita gli italiani a cantare. Piaceva la loro musica e soprattutto la canzone “ Mamma”: sono momenti di dolci, malinconici ricordi.
A Natale 1944 Arturo e i suoi compagni riescono a fare un presepe di fortuna in baracca, la fede e le tradizioni religiose accompagnano sempre i deportati e specialmente Arturo che proviene da una famiglia devota e religiosissima. Riescono a farsi una foto vicino al presepe , foto che purtroppo poi è andata perduta.
Nei primi mesi del 1945 c’è un bombardamento a Primenwalle, paesino a 5 km da Güstrow ,dove c’è una grande stazione di smistamento con diversi binari e un boschetto dove sono nascosti degli aerei. I prigionieri italiani da lontano vedono l’inferno: case crollate, binari divelti, attorcigliati e appesi agli alberi, alberi abbattuti o piegati. Ricevono l’ordine di partire per Primenwalle, dove per una intera notte lavorano per liberare la ferrovia dalle macerie fino a ripristinare il passaggio dei treni. Qui giungono anche tutti i prigionieri di ogni nazionalità presenti nelle vicinanze.
Il giorno di Pasqua 1945 molti aerei americani sorvolano Güstrow, è in atto un altro terribile bombardando a Berlino.
Si dice che gli americani stanno per liberare l’Italia dai nazisti, che la Germania è attaccata da americani e inglesi dal versante occidentale e che i Russi avanzano da est. La guerra infuria: i tedeschi cercano di proteggere i civili ordinando lo sgombero delle città forse per paura che i Russi facciano stragi, come avevano fatto le S.S a in passato. Tra i prigionieri si diffonde una grande paura : i Russi sono vicinissimi e si teme un bombardamento a Güstrow .Allora Arturo e i suoi compagni di sventura, scappano dalla baracca e si allontanano dalla città. Dormono all’addiaccio in una cava col sottofondo del rumore assordante dei carri armati russi che avanzano sulla strada che conduce a Sverin. Al mattino ,gelati e frastornati, ritornano nella baracca.Il 3 maggio 1945,giorno in cui a Galatone si festeggia il Crocifisso, i russi liberano i prigionieri italiani; i soldati tedeschi spariscono. Corre voce che dall’altra parte della città ci sono gli americani .Si decide di raggiungerli sperando che possano aiutarli a tornare a casa. Si cerca di raggiungere l’Italia ma non si sa come. Due di loro più coraggiosi
riescono a sottrarre un carretto ad un tedesco nascosto in un casolare. Partono: la via che intraprendono però li riporta al lager di Neubrandebug. Lì Arturo ritrova la foto col piastrino identificativo fatta all’inizio della prigionia, foto che purtroppo poi è andata perduta. Ritrovano alcuni compagni che erano in carcere, liberati dai Russi, ma apprendono anche con grande dispiacere che uno di loro, Caputo Nicola, è morto di tubercolosi.
Il 16 luglio 1945 partono da Neubrandenburg a piedi. Ancora una volta recuperano un carretto su cui caricano i bagagli e su cui ogni tanto sale anche un anziano appuntato dei carabinieri che ha difficoltà a camminare; a turno lo trainano. Dopo circa 50 km giungono a Prenlau ; sostano nella caserma militare tedesca vuota. Riescono a scrivere ai familiari utilizzando la carta degli atlanti dalla parte bianca e una matita che si passano a turno. Giunge la notizia che è pronto il treno per la partenza in Italia, ma proprio in quei giorni scoppia un’epidemia di tifo: molti si ammalano e finiscono in ospedale; quel treno partirà vuoto.
Finalmente il 3 ottobre 1945 salgono sul treno che tra lunghe soste nelle città tedesche tra cui Berlino, li porterà in Italia. Passano il confine del Brennero il 13 ottobre. Arturo arriva alla stazione di Nardò il 15 ottobre alle ore 8,15. Sono passati due anni e due mesi.
Salutati alcuni compagni che proseguono per Parabita e Matino, si avvia a piedi verso casa. Quando sta per arrivare, una vicina si accorge e, dopo un attimo di incredulità ,corre ad avvisare mamma Chiarina. Accorrono i vicini, esultano, lo abbracciano. È festa grande.
È la fine della prigionia di Arturo. È il giorno della sua Liberazione.---------------------------------
Il racconto /diario di Arturo Carrozza, scritto per le nipotine, è stato stampato nel 2007 col titolo da lui scelto “La mia prigionia”.
C.Carrozza